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"SENZA PAROLE": IL NUOVO MENSILE FRIULANO SBARCA A CODROIPO

IL SENATORE MARTI (LEGA) E LA CASA PROMESSA AL FRATELLO DEL BOSS DELLA SACRA CORONA UNITA

Vi ricordate dei leghisti friulani che insultavano i "terroni" e il leghista Marco Formentini che prometteva che il Nord avrebbe sconfitto le mafie del Sud? Ora non provino a dire che non sapevano nulla dei trascorsi di Roberto Marti (vedi foto), un politico super navigato e noto a tutti i cittadini pugliesi e alla stampa nazionale. Assessore comunale a Lecce, consigliere regionale, deputato e adesso senatore. Da Forza Italia al PDL, alla costola pugliese di Raffaele Fitto e infine alla Lega di Matteo Salvini. E' stato proprio il senatore Roberto Marti, alcune settimane fa, a presiedere a Udine il primo congresso regionale della Lega del Friuli Venezia Giulia e che ha visto la nomina a segretario regionale dell'on. Marco Dreosto. C'erano presenti tutti i big della Lega del Friuli Venezia Giulia, compreso il governatore Massimiliano Fedriga e il vice ministro all'Ambiente Vannia Gava, gli assessori regionali Barbara Zilli, Perpaolo Roberti e Sebastiano Callari, l'eurodeputato Elena Lizzi. All’epoca dei fatti, persino i giornali del Salento pubblicarono delle intercettazioni devastanti di un “colletto bianco” di un importante clan della “Sacra corona unita”, la quarta mafia pugliese, che a una sua amica, alla vigilia della proclamazione dei consiglieri comunali eletti, disse euforico: «Tutti i miei cavalli stanno vincendo». E il giorno della proclamazione furono diverse le chiamate di auguri: «I miei hanno vinto tutto». Si riferiva anche a Roberto Marti, che però ne uscì processualmente «immacolato». Dagli anni Ottanta ai giorni nostri - scrisse Michele Santoro -  la filosofia giudiziaria leccese prevedeva di bastonare l’ala militare della mafia locale e di non vedere i “colletti bianchi”. Sordo era il ceto politico comunale. Anche a fronte di requisitorie dell’opposizione: «Noi abbiamo il dovere politico di interrogarci e spiegare perché tra i banchi del consiglio comunale siedono esponenti sostenuti dalla Sacra corona unita». Appelli lasciati cadere nel vuoto. È vero che Lecce è nel tacco dello Stivale e prima che iniziassero a frequentare l’Italia, i leghisti erano arroccati nel Lombardo-Veneto. Ma non possiamo credere che sono stati stranieri in terra straniera fino a ieri. E dunque dovevano sapere che Roberto Marti fosse chiacchierato, soprattutto per una discutibile politica nell’assegnazione delle case popolari, che negli anni ha avuto per tre volte l’auto incendiata, e non per autocombustione. Che era finito sotto inchiesta per l’assegnazione di una casa confiscata a un mafioso che doveva finire al fratello di un altro mafioso. E ora che è stato eletto senatore nella lista della Lega, i magistrati di Lecce hanno spedito alla Camera dei deputati (all’epoca dei fatti era deputato) la richiesta di poter utilizzare delle intercettazioni telefoniche (indirette) nell’ambito della inchiesta che ha decapitato la giunta comunale di centrodestra per la gestione delle case popolari. Una inchiesta che ha fatto “morti e feriti”: 34 indagati, arresti di assessori e di consiglieri comunali, di dirigenti del comune. Voti elettorali in cambio di alloggi popolari. I reati contestati vanno dal tentato abuso d’ufficio al tentato peculato, al falso ideologico aggravato. E al supermercato della compravendita dei voti elettorali (europee, nazionali, regionali, provinciali o comunali) i leghisti hanno mostrato di essere capaci nel fiutare l’affare, imbarcando anche gli impresentabili. Del resto se le forze politiche leccesi lo “graziarono” una quindicina d’anni fa perché oggi il Tribunale della Lega dovrebbe condannare Marti? Roberto Marti, un tempo fedelissimo di Raffaele Fitto nel 2017 passò nella Lega di Salvini. Nelle carte inviate dalla Procura di Lecce a Montecitorio, i magistrati ricostruirono la vicenda. Nell’ufficio di un dirigente del comune, viene raccontata la tragedia vissuta dal fratello di un boss, Antonio Briganti: «Il 30 giugno del 2014 era andata bruciata la casa ed era rimasto per strada. Da quel momento Monosi (un assessore, ndr) si era adoperato per cercargliene una, anche attraverso la graduatoria per gli alloggi ERP, di cui la moglie Luisa Martina faceva parte senza riuscirci e che pertanto erano alloggiati presso il residence “Giardini di Atena” dove pagava la cifra, per lui insostenibile, di 600 euro al mese». Il dirigente comunale si impegnò a garantirgli «una casa di quelle che abbiamo sequestrato…». Il nome del senatore Marti nelle carte è omissato: «? stato proprio (omissis) a incaricare Rosario Greco detto Andrea di cercare una soluzione per il problema abitativo di Antonio Briganti. Addirittura dalle conversazioni intercettate sull’utenza di Greco si evince che (omissis) aveva chiesto “piangendo” di risolvere per lui la situazione del Briganti». «Greco: “Non abbiamo fatto costruzioni, hanno fatto tutto loro, per favori che hanno ricevuto a ripetizione, loro si sono offerti quando si è bruciata la casa”, facendo emergere la circostanza che l’intervento di (omissis) al fine di far ottenere una sistemazione alloggiativa ad Antonio Briganti, derivava da favori ricevuti a ripetizione. Rosario alias Andrea Greco, vero e proprio collettore di voti, anche a pagamento trova piena conferma nella vicenda accertata nel contesto delle elezioni regionali 2015». Alla fine per Marti, il senatore leccese della Lega, non c'è stato alcun processo. Dopo il no del Senato (in linea alla proposta avanzata dalla Giunta delle immunità parlamentari) a utilizzare le intercettazioni che riguardavano anche gli ex assessori e consiglieri comunali Attilio Monosi e Luca Pasqualini, la Procura di Lecce aveva gettato la spugna e chiesto l’archiviazione. E l’istanza è stata accolta nell'agosto 2022 dalla gip Alessandra Sermarini. A determinare le scelte della magistratura che ha atteso a lungo una risposta da parte degli organi competenti circa la possibilità di utilizzare i colloqui del politico, ritenuti “eloquenti”,  è stata proprio la negazione di poter sfruttare quel materiale. Alla fine, infatti, furono ammessi solo alcuni messaggi scambiati con un presunto collettore di voti. Nella prima istanza per chiedere il loro uso, avanzata nel febbraio del 2019, il gip dell’epoca Giovanni Gallo ritenne  che tutte le intercettazioni potessero essere impiegate, poiché essendo casuali e fortuite, non necessitavano di una autorizzazione preventiva. La  Giunta delle immunità, però, diede ragione ai difensori, gli avvocati Pasquale e Giuseppe Corleto, che sottolinearono in una memoria come il nome di Marti comparisse già nell’informativa depositata dalla Guardia di Finanza nel 2014, quando era deputato, e si sospettava l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata all’assegnazione di alloggi popolari in cambio di voti. Ma la sua iscrizione sul registro, tuttavia, sarebbe avvenuta solo nel 2017. Il procedimento si è chiuso dunque per ragioni puramente tecniche, ma che di certo non soddisfano il bisogno di una verità che i cittadini e le vittime delle mafie si aspettano.


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